Acromatopsia: dall’essere un problema all’avere un problema.

dott.ssa Anna Piccioni

Oculista Genetista Consulente di Ipovisione

L’acromatopsia completa è descritta in letteratura come una “distrofia congenita ereditaria della retina trasmessa come tratto autosomico recessivo”. Interessa in media una persona su 30.000-33.000 abitanti dei Paesi occidentali. I segni clinici caratteristici della patologia sono: la riduzione dell’acuità visiva intorno ad 1/10 e che peraltro rimane stabile nel tempo, la presenza di nistagmo fin dai primi mesi di vita, la fotofobia con intensità diversa secondo i casi, l’assenza di visione dei colori e la compresenza di difetti refrattivi.
Per parlare di Acromatopsia il famoso neurologo e regista americano Oliver Sacks sceglie per un suo libro il titolo intrigante “L’isola dei senza colore”, che sottolinea come, nella accezione più comune, l’acromate sia colui o colei che non vede il mondo a colori, quasi fosse rimasto negli anni del cinema e della televisione in bianco e nero.
Abbiamo spesso bisogno di semplificare termini scientifici complicati, che ci lasciano in disparte rispetto agli addetti ai lavori. C’è per tutti bisogno di comprendere, di essere consapevoli del significato dello scorrere del tempo e delle potenzialità ancora in nostro possesso soprattutto dopo una diagnosi, momento di riflessione, semaforo rosso nella vita.


A chi il compito di tradurre una diagnosi, come e perché?

Vorrei iniziare dall’ultima di queste domande: perché?
Perché è necessario e indispensabile che esista una comunicazione tra medico e paziente nella quale la conoscenza, l’esperienza e la perizia del medico vengano offerte al paziente attraverso un linguaggio che possa renderlo cosciente di quanto gli sta accadendo, con la comprensione ed il supporto necessari a non lasciarlo solo con i suoi dubbi e le sue preoccupazioni.
Citando Paolo Cattorini, Professore di Bioetica: “Il clinico non è solo un tecnico, ma un uomo impegnato a promuovere il bene di un altro uomo, portando a frutto le competenze tecniche e le conoscenze scientifiche acquisite”.
La passione e l’abnegazione del medico non possono ravvisare nella diagnosi il loro unico fine; il grande compenso professionale si riceve quando, seppure in condizioni terapeutiche svantaggiate, il paziente mantiene o recupera un adeguato equilibrio personale.
Quanto sia delicato il momento della comunicazione di una diagnosi credo sia esperienza comune. Tuttavia non è mai abbastanza sottolineato per creare l’atmosfera più idonea al caso, soprattutto quando si hanno di fronte genitori addolorati, sconvolti e frustrati nella loro umana aspettativa di benessere per il proprio figlio/a.
Come comunicare è quasi sempre affidato al buon senso ed alla esperienza dei singoli e non è ancora divenuto tema generale di studio e riflessione durante gli anni universitari per conseguire la laurea in Medicina.
Comunicare la diagnosi può avere un effetto devastante se, nello stesso tempo, non si offrono consigli ed indicazioni sui servizi e sulle metodiche di approccio riabilitativo, considerando le esperienze psicosociali e le capacità di affrontare la presenza di un deficit visivo da parte della famiglia e/o dell’individuo.

Costruire una relazione efficace medico – paziente – famiglia.

Nel caso di una patologia congenita quale l’Acromatopsia è frequente che siano i genitori i primi osservatori di un comportamento anomalo nella visione dei loro figlioli già durante i primi mesi di vita. Possono essere chiamate in causa professionalità diverse dal Pediatra, al Neurologo, all’Oculista. Sicuramente a quest’ultimo è quasi sempre passato il testimone perché giunga al traguardo capace di definire un quadro a volte sottostimato e passibile di una interpretazione che porta fuori strada.
L’Oculista deve sentirsi investito di una responsabilità che supera quella clinica, in quanto egli è utile ed indispensabile per promuovere collegamenti tra le varie figure professionali che possono offrire sostegno scientifico, tecnico ed educativo. All’Oculista spetta il compito di spiegare perché l’assenza della percezione di variazioni di colore nel mondo intorno a noi possa generare una serie di comportamenti che, all’apparenza, richiamano difficoltà aggiuntive mal comprensibili.
Nel caso dell’Acromatopsia l’approccio oculistico può presentare difficoltà legate alla rarità del disordine, alla presenza di segni obiettivi che sono in comune con altre patologie retiniche ed alla necessità di intervenire nei primi anni di vita, quando è difficoltoso somministrare tutti i test validati per una quantificazione della vista e della capacità nel riconoscimento delle sfumature di colore.
Soprattutto nel primo anno di vita non possiamo chiedere ad un bambino di leggere un tabella o di verbalizzare una percezione di colore, ma sono a disposizione test validati dai quali è possibile ricavare osservazioni preziose e ripetibili.
Nel caso di bambini e adolescenti si rende necessaria una buona familiarità con le metodiche che consentono di capire come viene usata la vista e quale sia la funzione alterata. Si parla in termini di valutazione funzionale, tipica della riabilitazione visiva.
Il bambino acromate è facilmente abbagliato in condizioni luminose sfavorevoli, mentre è disinvolto in media luminosità sicché la sua osservazione e la proposta dei test deve necessariamente tenere conto delle condizioni ambientali nelle quali si svolge.
Da parte dell’Oculista è ugualmente utile acquisire conoscenza ed esperienza nella genetica oculare perché da questa importante branca della scienza ci vengono chiarimenti non solo sull’origine della malattia, ma anche sulla diversità del modo di presentazione in ciascun individuo.
Si parla di acromatopsia completa per distinguerla da altre forme di alterata visione dei colori.
La cosiddetta Cecità Parziale (indicata nel linguaggio corrente come daltonismo dal nome del ricercatore che la descrisse) segue una via di trasmissione X linked, ovvero l’alterazione dei geni che codificano per i pigmenti dei coni è trasmessa da femmine portatrici sane e si manifesta nel 7,4% della popolazione maschile (dati europei). La popolazione femminile è raramente affetta e le statistiche in Europa indicano che i casi con forma clinica sono pari allo 0,5%. Nella cecità parziale la visione dei colori risulta essere di-cromatica per alterato funzionamento di una delle tre popolazioni dei coni. Si distinguono tre forme: protanopia, deuteranopia e tritanopia in relazione alla carenza del pigmento rosso, verde o blu. Ad esse non si associa mai decremento del visus.
Nella diagnosi differenziale con le forme associate a riduzione visiva si debbono prendere in considerazione altre patologie retiniche. Prima fra queste è la famiglia delle Distrofie dei Coni a trasmissione ereditaria autosomica recessiva e talvolta autosomica dominante. L’inizio delle manifestazioni cliniche è per tutte tardiva rispetto all’acromatopsia con comparsa dei primi segni e sintomi tra i 10 e i 20 anni. La caratteristica fondamentale è la progressiva riduzione del visus. La fotofobia rappresenta un carattere comune, mentre all’esame del fondo oculare l’area maculare può presentare alterazione tipo “bull’s eye” oppure “salt-pepper”, assenti nell’acromatopsia. La seconda patologia da differenziare è il Monocromatismo dei Coni Blu, trasmesso con modalità X linked, si presenta con nistagmo e fotofobia di grado ridotto, il decremento visivo è modicamente progressivo ed il picco di sensibilità alla luce si presenta a 440 nanometri.
L’Acromatopsia si manifesta perché è presente un mutazione dei geni preposti al controllo della funzione di fototrasduzione a livello dei coni ovvero il controllo della trasformazione, a livello dei coni, dei segnali luminosi in segnali elettrici.
A tutt’oggi i geni mappati sono tre: CNGA3 (cromosoma 2), CNGB3 (cromosoma 8) e GNAT2 (cromosoma 1). I progressi della biologia molecolare aprono scenari interessanti e sembra che complichino un poco la vita, ma le conoscenze attuali possono offrire diagnosi più circostanziate.
Particolare cura deve essere dedicata al colloquio con i genitori.
L’atteggiamento di ascolto della storia clinica può fornire tutte le indicazioni non raccolte attraverso altri esami. Esiste un elemento che fa la differenza, troppo spesso sottovalutato: la brutale variazione di risposta nel comportamento del bambino al variare delle condizioni di luminosità degli ambienti, un passaggio dalla cecità alla visione che si propone con reazioni a volte drammatiche.
L’ambiente di visita può divenire il luogo di definizione della diagnosi solo se le luci adottate sono coerenti con tali presupposti.
L’Oculista inoltre deve poter contare sulla collaborazione di Colleghi specializzati negli esami di elettrofisiologia oculare, il più importante dei quali per l’Acromatopsia è l’ERG o elettroretinogramma. L’ERG rappresenta l’esame attraverso il quale si analizza e si misura il trasporto dell’informazione visiva all’interno della retina. Questa è la struttura più interna della parete del bulbo oculare, costituita da tessuto nervoso a più strati ciascuno dei quali svolge un compito specifico compiendo una iniziale fase di elaborazione nella percezione delle forme, del colore, del movimento e della profondità.
L’identificazione delle varie componenti dell’ERG è possibile inducendo differenti condizioni di adattamento della retina alla luce, variando lo stimolo ed il metodo di raccolta dati. Sui particolari di questo utile esame tornerò fra poco.
Semir Zeki, neurofisiologo, scrive in un suo articolo di qualche anno fa: “Lo studio del sistema visivo è una impresa di carattere profondamente filosofico: si tratta infatti di stabilire in che modo il cervello acquisisca conoscenza del mondo esterno”.
Il mistero ed il fascino del meccanismo della visione sono proprio in questo indissolubile rapporto tra percezione e conoscenza.
Nel 1871 James Clerk Maxwell, fisico e matematico, uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, tiene una lezione sulla “Visione dei colori” alla Royal Institution e all’inizio del suo discorso sostiene: “Vedere è vedere a colori, perché è soltanto mediante l’osservazione delle differenze di colore che distinguiamo le forme degli oggetti. E quando parlo di differenze di colore intendo includere anche le differenze di lucentezza e ombra”.
Si era solo all’inizio di una ricerca che nei secoli ci ha portato alle raffinate conoscenze odierne, ma l’ultima frase svela già quanto sia da considerare oltre il colore. Si sottolinea l’importanza del contrasto, aspetto fondamentale nella visione.
All’interno dell’occhio la retina svolge il compito di intercettare la luce e identificarne le caratteristiche spaziali, temporali, di composizione e di intensità luminosa. Due sono le popolazioni cellulari protagoniste di questo complesso fenomeno: i coni e i bastoncelli, nomi che derivano dalla loro forma osservata al microscopio elettronico.
La specializzazione dei coni è quella di rispondere, di captare le fonti luminose ad alta intensità, quale la luce solare, diurna. La percezione del colore si accompagna alla elevata intensità luminosa.
[I bastoncelli invece sono sensibili ai bassi livelli di illuminazione, quelli del crepuscolo – N.d.R.]. La loro incapacità di reazione alle luci potenti, più di tutte la luce del giorno, lascia l’occhio senza difesa, senza la struttura che seleziona e modula l’impatto dei segnali sulla retina. Il risultato è l’abbagliamento, come uscendo alla luce dopo un tunnel oscuro o come un flash scattato all’improvviso. Ognuno di noi si definirebbe “accecato”, ferito da troppa luce. A causa del fenomeno dell’abbagliamento si assiste a due diversi comportamenti: il primo e più plausibile è lo strizzare le palpebre di fronte a luci intense, la cosiddetta fotofobia. Il secondo, che non ha ricevuto ancora una totale spiegazione dalle neuroscienze, è rappresentato dall’attrazione eccessiva verso le fonti di illuminazione. Si pensa che in questo caso si produca una stimolazione paradossa, una sorta di autoipnosi piacevole e senza gravi rischi perché i coni sono già lesi. Un ulteriore fenomeno che genera curiosità è la costrizione paradossa della pupilla, dal diametro ridotto al buio ed invece ampia in condizioni di luce intensa. Tale fenomeno è indicativo di affezioni della retina e fornisce un utile indizio diagnostico. La sua origine non è chiara, ma richiama alla necessità di eseguire un ERG.
L’elettroretinogramma rappresenta una tecnica non cruenta, non invasiva, indolore.
Nell’Acromatopsia siamo in grado di poter esaminare la diversa risposta allo stimolo prodotta dai coni e dai bastoncelli. Per questi ultimi si usa la metodica dell’ERG scotopico ottenuto stimolando la retina con luce a bassa intensità dopo aver fatto soggiornare il paziente al buio per 30 minuti. La stimolazione dei coni ci fornisce un tracciato detto ERG fotopico per l’uso di luce ad alta intensità. Nell’Acromatopsia completa l’ERG fotopico è estinto, L’ERG scotopico è normale.
Certamente l’ERG è un esame che richiede grande esperienza e soprattutto necessita di pazienza e di abilità da parte dell’esaminatore per mettere il paziente nelle migliori condizioni di risposta.
Se tale presupposto è valido per gli adulti, è irrinunciabile per i bambini. A volte un approccio inadeguato da parte dell’operatore mette a repentaglio la possibilità di ottenere dati preziosi in assenza di altri test. Oltre a questo vale ricordare come la visione ad alto contrasto sia l’unica utile al riconoscimento dei dettagli. Il concetto di contrasto ritorna importante come nelle parole di Maxwell.
Quante volte, senza neppure riflettere, aumentiamo l’illuminazione per poter leggere meglio, infilare l’ago, notare una sfumatura o evidenziare la forma di un oggetto o di un disegno. Aumentiamo la luce perché abbiamo bisogno di stimolare l’area della retina che è preposta alla visione nitida, dettagliata, ad alto contrasto. Questa regione è la macula, al centro della retina, nel fondo del bulbo oculare ed è abitata dai soli coni. Nel resto della retina troviamo praticamente solo bastoncelli il cui compito principale è quello di rispondere alle basse intensità di luce, senza fornirci la nitidezza del particolare e senza sensibilità ai colori.
Per capire meglio vi suggerisco un piccolo esperimento: fissate la punta del dito indice posto davanti a voi. Il vostro dito risulta chiarissimo in ogni dettaglio, tutte le immagini che sono dietro sono visibili, ma sfuocate. Avete usato la macula, cioè i coni, per fissare l’indice, il resto della retina con i suoi bastoncelli è servito per avere una visione d’insieme senza cogliere i dettagli. La stessa cosa accade davanti alla tabella di lettura, per lontano o per vicino, con la quale si effettua la misurazione della vista. La misurazione, espressa in decimi, è la quantificazione del buon funzionamento della macula.
In questo modo si spiega come, per l’assenza di funzione dei coni, venga a diminuire anche l’acuità visiva, sia per lontano che per vicino. Nel caso dell’Acromatopsia la riduzione è stabile nel tempo, senza modifiche perché i coni sono assenti o comunque incapaci di reagire fin dalla nascita. La massima risposta visiva è tra 1/20 e 1/10 nella forma completa, di poco superiore nella forma incompleta e nel monocromatismo dei coni blu, terza variante dell’Acromatopsia trasmessa attraverso l’alterazione di un gene presente sul cromosoma X della mamma.
La ricerca della massima risposta visiva richiede la ricerca e la correzione di un difetto di refrazione. La refrazione è la capacità da parte delle varie componenti dell’occhio a convogliare gli stimoli luminosi sulla macula per metterli a fuoco. Molti bambini acromati sono ipermetropi e necessitano della correzione con lenti per ridurre al massimo la sfuocatura dell’immagine. La prescrizione degli occhiali rappresenta a volte una difficoltà psicologica per le famiglie che hanno richiesto l’inclusione del proprio figlio nelle liste dei disabili della vista. Gli occhiali rappresentano una contraddizione alla dichiarazione del deficit o comunque un timore di essere sconfessati. Anche in questo caso è importante la conoscenza dei meccanismi fisiologici della visione e la filosofia dell’approccio riabilitativo.
L’esaltazione del contrasto va perseguita con ogni mezzo: l’uso delle lenti filtranti, la schermatura laterale della montatura e/o l’uso di una visiera all’esterno, la correzione del difetto di refrazione, l’uso di una illuminazione mirata all’interno degli ambienti di vita, l’assecondare posizioni di sguardo con ausili che migliorino la postura
L’introduzione di lenti telescopiche per lontano è auspicabile non appena è richiesta una maggiore autonomia di spostamento. Questi ausili incontrano di frequente un’avversione psicologica da parte degli adolescenti. Essi provano disagio a mostrare il proprio limite ai coetanei in una fase di crescita oltremodo delicata. La dimostrazione del beneficio che ne deriva può produrre interesse per superare il rifiuto.
A questo punto diventa più agevole spiegare perché in quasi tutti gli acromati, di solito fino all’adolescenza, gli occhi appaiano scossi da movimenti ripetitivi, fini, orizzontali, con una tendenza a strizzare le palpebre quanto più si esce all’esterno. I movimenti ripetitivi rappresentano il nistagmo e compaiono intorno al 4° – 5° mese di vita.
Anche il nistagmo è legato alla funzione della macula, che raggiunge la sua piena maturità proprio nel 4° mese dopo la nascita. Maturità della macula vuol dire massima risposta dei coni. Senza la loro funzione la retina è sprovvista di un centro di fissazione ed è per questo che il nistagmo sembra spiegarsi come un ripetitivo movimento di ricerca del punto di massima messa a fuoco. La ripetitività del movimento, spontanea e difficilmente controllabile, peggiora la qualità della visione. Spesso osserviamo come le persone con nistagmo assumano delle posizioni anomale del capo per osservare meglio i dettagli e a distanza molto ravvicinata. In tali posizioni si ottiene una notevole riduzione delle scosse e non si consiglia di correggere la postura anomala. Priveremmo i nostri ragazzi di una strategia utile all’acquisizione di importanti informazioni. Non trascurando l’attenzione per la posizione del collo e della colonna vertebrale è necessario adattare la scrivania e il banco affinché siano ridotti la tensione e lo sforzo che sono causa di dolori e di atteggiamenti cronici di compenso.
Tavoli con piani inclinabili, leggii, sedie ergonomiche, studio delle fonti di luce a casa e a scuola sono sussidi indispensabili prima ancora degli ausili ottici di ingrandimento per tutte le attivita’ che richiedono l’uso della vista per vicino. La lettura e la scrittura richiedono tempi più lunghi della norma, serenità, distensione e comodità per un buon apprendimento.
La riduzione della acuità visiva per lontano, unitamente al fenomeno dell’abbagliamento presentano delle ricadute funzionali importanti nello sviluppo della comunicazione, dell’orientamento e della mobilità, nell’apprendimento incidentale e nelle attività della vita quotidiana. Nel caso dell’acromatopsia va sottolineato come in modo peculiare ciascuna di queste aree risenta fortemente delle condizioni di luce ambientale.
La comunicazione si avvale molto di messaggi non verbali particolarmente importanti all’interno del gruppo dei coetanei. L’orientamento e la mobilità, insieme all’esercizio delle abilità della vita quotidiana, sono i presupposti dell’autonomia. L’apprendimento incidentale passa attraverso il “colpo d’occhio”, il cogliere fugacemente le immagini di una situazione.
La vita di ognuno è molto più ricca di comunicazione non verbale e di apprendimento incidentale di quanto si possa immaginare. Nella limitazione visiva le esperienze debbono essere indotte e concesse. Ogni tipo di informazione deve essere trasmessa e mediata da parole ed azioni concrete da parte degli educatori e dei riabilitatori, per facilitarne la costruzione di una memoria mentale.
Di conseguenza l’acquisizione di strategie alternative deve essere sostenuta dalla consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti in ogni circostanza.
La costruzione della stima di sé diventa una operazione delicata nella ricerca e nella affermazione di una identità che spesso è difficile confermare agli occhi degli altri. L’acromate può essere considerato allo stesso tempo un cieco ed un vedente se non si conoscono l’origine del suo disagio e la necessità di usufruire di metodiche ed ausili che si modellino ad esigenze molto contrastanti.
A questo non giova ancora molto la rigida classificazione delle disabilità visive alla quale dobbiamo fare riferimento per ottenere ausili e riconoscimento dei diritti. In attesa di una burocrazia più sensibile e rispettosa dobbiamo incessantemente ricercare un approccio riabilitativo altamente professionale che segua i ragazzi nella loro evoluzione.